Pubblicato il 07 giugno 2016 in http://vecchiatoart.blogspot.it
“Nella nostra vita frettolosa, assordante,
sono maledettamente poche le ore
in cui l’anima può diventare cosciente di sé stessa,
in cui tace la vita dei sensi e quella dello spirito
e l’anima sta senza veli davanti allo specchio dei ricordi e della coscienza.”
(Hermann Hesse)
Udire, vedere, toccare… sono le sensazioni primarie che ci mettono in contatto con il mondo.
I primi segnali che attraversano l’uomo nel momento in cui si trova a uscire dal ventre materno e cominciare il faticoso approccio alla vita.
Udire, vedere, toccare… per conoscere e conoscersi, per sapere che il corpo ci appartiene e che ci accompagna, giorno dopo giorno, con le modifiche del tempo, con le sorti che arrivano, con le imposizioni esterne che ci vengono fatte o che noi facciamo al nostro corpo abbellendolo o martoriandolo con piercing, palestra, tattoo.
Udire, vedere, toccare… quando si scopre il corpo della persona che si ama, lasciando che non sia solo uno scambio di liquidi e calore che pervade l’uno o l’altro, scoperta del piacere in sé e di chi si ama.
Udire, vedere, toccare… a quale di questi sensi possiamo rinunciare? Quale di queste sensazioni ci serve di più? Cosa si fa e dove si va oltre al sentire, al guardare e al tastare?
Un mondo senza suoni? Senza colori? Un mondo senza tattilità? A cosa si è disposti a fare a meno? Se dovesse mancare uno dei sensi come ci si comporterebbe?
Qualcuno direbbe alle mani, prolungamento tattile verso l’esterno che, venendo a mancare, riducono la possibilità di toccare, sfiorare, sentire le sensazioni e il calore.
Altri direbbero alla vista, accontentandosi di immaginare i suoni che producono sensazioni e forme, per altri invece l’udito, essere quindi sordi ai rumori e ai suoni, alla musica, alle voci e ovattare un mondo fatto solo di sensazioni proprie.
Ma in realtà nessuno rinuncia ai propri sensi, nessuno è disposto a abdicare o vedersi menomato di vista, udito o facoltà tattile.
Eppure… eppure ci sono persone che nel corso della vita perdono queste percezioni ma ci sono altri a cui mancano dalla nascita e potranno solo immaginare quello che in realtà, per un altro essere umano, è la normale quotidianità.
Si parla di sensibilità, si parla di visioni, di emozioni che si trasmettono con le opere d’arte ma come farle cogliere in un mondo dove l’arte contemporanea è ormai percepita come una globalizzazione totalizzante di impressioni?
Il supporto o i materiali sono solo dettagli per esprimere le sensazioni, davvero?
Ci sono opere a cui è richiesto allo spettatore di vedere solamente, altre invece che abbisognano dell’udito in quanto create solo da suoni, installazioni a cui si chiede al pubblico di interagire e toccare.
Il sistema dell’arte è cambiato, l’arte contemporanea lo ha cambiato, sono mutati i tempi e la società e di conseguenza gli artisti con le loro produzioni, siamo cambiati noi.
Ora ci si approccia al mondo senza isolare chi è “diverso”, si sono abbattuti muri e incomunicabilità già a partire dall’ultimo secolo (o almeno si è cercato di farlo…) anche se la strada da fare è davvero faticosa e ancora lunga.
Pensateci: quando vi cala vista, vi nasce un’otite, mi sbucciate una mano… sono solo casi passeggeri, altri invece ci devono fare i conti tutta la vita perché non hanno vista, non sentono, non toccano.
Molto si è fatto e molto ancora si deve fare, chissà come vede un quadro un cieco o come tocca un uomo a cui mancano le mani, infine, come sente la musica un sordo?
Per parlare e comunicare ci sono lingue, non linguaggi e quando ci si approccia e addentra dentro un mondo che nella maggior parte dei casi si dà per scontato.
Si impara una lingua non un linguaggio: è uno degli errori che si fa quando si parla della LIS (Lingua dei Segni) per i sordi o della scrittura Braille per i ciechi.
Accade spesso sui muri, quando si parla di Street Art, ci sono segni e non graffi e bisogna decodificarli, capirli e impararli, così, ad esempio, ad un sordo ci si avvicina con una lingua e dei segni non con la paura di sbagliare o di essere poco rispettosi.
Che male c’è nel salutare una persona sorda dicendo “Ci sentiamo!” od un cieco “Ci vediamo!”? Mica si offende nessuno, mica si allontanano pregiudizi o paure, mica si sbaglia, semplicemente si vive la propria quotidianità perché non c’è nulla di anormale, lo “strano” è chi guarda impaurito e differente un altro essere e lo isola automaticamente per timore o troppo rispetto.
Come interpretano gli artisti quel trinomio visto dall’inizio: udire, vedere, toccare?
Concetti, formulazioni e approcci a volte voluti, a volte casuali hanno portato gli artisti a interagire con tutti i sensi e a creare opere d’arte con più gradi di lettura.
Ecco gli esempi degli ambienti plastico-spaziali, impostati già a partire negli Sessanta, per mettere in comunicazione tutto il corpo, sfiorando, palpando, camminando all’interno di ambienti cinetici e non come quelli impostati da Lucio Fontana, Enrico Castellani, Pino Pascali, Alberto Biasi, Gianni Colombo, Ettore Colla, Agostino Bonalumi, Luciano Fabro, Michelangelo Pistoletto, Paolo Scheggi.
Esperienze visive prodotte dal brasiliano Ernesto Neto si ritrovano con le sue stanze riempite di soffici cuscini e di aromi. Qui l’artista scolpisce spazi, atmosfere, suggestioni e crea installazioni labirintiche da attraversare con i sensi e con il corpo, sono luoghi in cui è facile perdersi guidati da morbide sculture in lycra ricolme di spezie.
Rumori e suoni impostati da artisti che hanno utilizzato la tecnologia per riprodurre il mondo circostante trovano un precedente e padre putativo in Luigi Russolo con i suoi Intonarumori, strumenti creati per riprodurre i suoni della città moderna fatta di locomotive, tram, clacson, auto e moto, antesignano dei moderni sintetizzatori.
Peter Greenaway, con le sue scene tratte direttamente da un sogno da “La tempesta “di William Shakespeare riproduce nelle sue visioni il vento, il mare, i tuoni e la pioggia riuscendo a catapultare il visitatore all’interno della natura quando quest’ultima si fa violenta e indomita.
Solo udire suoni a noi familiari conduce a riconoscere, in base alla propria esperienza, quello che la “tempesta” naturale fa scaturire come “tempesta” emozionale.
Marina Vargas, con la serie di mani impostate in un dialogo nella lingua dei segni che recitano la frase “’Y la palabra se hizo carne” (E il Verbo si fece Carne), materializza una nuova idea attraverso una parte del corpo che ha la capacità di comunicare senza linguaggio verbale.
Patrick Tuttofuoco, presente alla Pirelli Hangar Bicocca con l’installazione “Welcome”, ha concepito un’installazione pendente dal soffitto con un neon che riproduce la silhouette delle proprie mani che mimano la parola “welcome” nella lingua dei segni.
Luce e segni: un tutt’uno per dare vita ad un’opera completamente visiva nella sua interpretazione di lettura, un benvenuto luminoso e gestuale allo stesso tempo.
Nelle opere di Giuseppe Ciracì emergono, come sottili ricordi, le forme del trascorso, come un abbraccio, come una mano che si stringe ad un’altra a ricordare e suggellare un passaggio di consegne e di vita tra il passato e il presente che presto diventerà futuro.
Antichi codici miniati sui quali l’uomo ha scritto la storia si fondano con le emozioni e la carta, trattata dal tempo e dall’atmosfera, rivela un segno, un tratto che parla senza parole, palpabile e reale.
Le mani sono le protagoniste di alcune opere di Günter Brus dove, attraverso la fotografia, fissa strumenti di tortura per le stesse mani, martoriate e immobili, quasi incapaci di difendersi ed esprimersi: una lingua mozzata è una lingua che non parla.
Nonostante le esplosioni stratificate di colori, le sinuosità rannicchiate delle figure, nude ed indifese, Pier Toffoletti pone l’attenzione che si accentua sulle mani, quasi sempre in primo piano, quasi a scaturire fuori dalla tela, nervose, tese, definite a rappresentare un trait d’union tra la tela e lo spettatore che viene accompagnato “per mano” dall’artista e i suoi soggetti in mondi fatati fatti di segni, schizzi e colate di colore.
Fabrizio Dusi, con i suoi lavori invece riproduce silhouette di uomini e donne che parlano, aprono la bocca, si lasciano andare ad un bla bla bla di parole che non producono suono ma si trasformano in bolle colorate che si perdono nel cielo.
Suoni che non si sentono, parole che non si vedono.
Una scultura che è percepibile al tatto può rivelare un’anima a chi la guarda, può far sentire voci nascoste a chi le sa udire. Nelle forme di Giuseppe Inglese quello che appare non è quello che è, basta che la luce del giorno si sostituisca al buio della notte per far scattare una luminescenza che manifesta un altro essere, un’altra opera, un’altra anima, come un soffio, anzi come un respiro.
Nelle tele e nei murales di Tony Gallo, i suoi soggetti sono esseri onirici e antropomorfi che si tolgono ogni imbarazzo e si fermano, guardano stupiti lo spettatore, curiosi: un animale che guarda un altro animale. Ecco, questo è l’uomo di fronte a ciò che non capisce, si blocca e osserva curiosamente e morbosamente.
Street art bolognesi hanno usato un muro nel centro città per poter comporre una parola con la lingua dei segni: amore. Un muro che svetta in alto, con grandi mani composte a formare l’amore, visibili, enormi e puntate dritte verso il cielo come, appunto, atto d’amore.
Si, perché “amore” è la parola più usata ed abusata dal genere umano, nelle arti, nella quotidianità e si esprime ogni giorno a volte poco o, al contrario, egoisticamente troppo verso se stessi e verso gli altri.
Amore, lo si dice ed esprime con gli occhi, con la bocca, con le mani per poterlo udire, vedere, toccare…un solo e unico grande atto che, se viene a mancare, mette l’accento sui sensi e sulle sensazioni che non ci sono ma si sovvertono in altri modi, in altre percezioni e si accarezza con gli occhi, si tocca con la bocca, si sente con le mani.
L’arte cerca di trasmettere ma mai colmare quello che in realtà manca, nonostante l’amore, mette un punto fermo perché si riesca a pensare e trovare la giusta sensibilità per comunicare agli altri esseri umani, perché sappiano udire, vedere, toccare…