“Il tempo guarirà tutto.
Ma che succede se il tempo stesso è una malattia?
Come se qualche volta ci si dovesse chinare per vivere ancora.
Vivere: basta uno sguardo.”
(Marion – “Il cielo sopra Berlino“)
L’uomo ha sempre puntato lo sguardo verso l’alto, verso il cielo, alla ricerca dell’infinito e con la voglia di staccarsi dalla terra per volare, per andare oltre ai confini fisici compresi e catturati dal naturale meccanismo della visione.
Non riuscendo ad accontentarsi di vedere con il solo procedimento fisico l’uomo ha cercato di fare altro, di spingersi più in là creando mezzi che potessero catturare quella sorta di potente visione infinita che si estendeva oltre al visibile occhio nudo.
I primi sistemi cartografici per riuscire a segnare limiti e zone, la traccia di una mappatura dei luoghi per marchiare lo spazio circostante, i segni che si trasformano in luoghi, i colori in altrettante simbologie, forniscono l’aiuto ad uno campo che è così catturato e limitato per finire poi a riposare direttamente su un’unica superficie che identifica genti, luoghi e spazi in una sola visione: una mappa, una carta che serva come traccia per il punto in cui ci si trova.
Dal basso, dalla terra, l’uomo ha sempre voluto e cercato in qualche modo di innalzarsi e guardare oltre, guardare in alto e dall’alto, per una visione d’insieme totale, per senso di appartenenza e riconoscibilità dei luoghi e questo ha prodotto la curiosità per conoscere, per viaggiare ed esplorare, per attraversare mari e scalare montagne, per faticare poi a raggiungere un luogo ed una meta e, successivamente, per voltarsi indietro per guardare, finalmente, la strada percorsa e godere della totalità d’insieme che si apre agli occhi: la terra calpestata finora, il mare navigato, i cieli solcati, tutto adesso si ritrova in una irripetibile osservazione d’insieme.
È buffo, l’uomo guarda e scruta il cielo, si spinge verso nuovi pianeti e spazi, ma una volta salito fino alle stelle che fa? Guarda in basso, da dove è partito e da dove presumibilmente ritornerà.
Si scala una montagna puntando lo sguardo verso la vetta, si raggiunge la cima e si respira tutta l’aria attorno cercando di riconoscere in lontananza quei territori appena calpestati e ora lontani che si perdono nell’immensità della vista. Ciò che spinge a ricercare è il senso di appartenenza ad un luogo, è una sicurezza di riconoscibilità che porta l’uomo a farsi indagatore dei territori e a rintracciare nell’anima l’adesione al posto esplorato.
Nel corso dei secoli l’arte ha cercato di fermare l’impressione dei luoghi caricandoli da un punto di vista differente: gli spazi si sono immaginati come un volo d’uccello librato sopra le teste come dimostrano i precedenti storici delle linee di Nazca, enormi geoglifi a cielo aperto nel deserto di Nazca in Perù che sono visibili solo dall’alto; le prime prove cartografiche dal Rinascimento in avanti; le immagini scattate dal fotografo francese Nadar che si librava sui tetti parigini con un aerostato sfidando pericoli e tacciato spesso per un pazzo e ridicolizzato dai suoi contemporanei, fino ad arrivare alle prime sperimentazioni aerodinamiche che sfoceranno nell’Aeropittura Futurista dopo la Prima Guerra Mondiale con rappresentanti artisti chiave quali Gerardo Dottori, Tullio Crali e Fedele Azari, dove il punto di vista si sposta nell’etere per riuscire a guardare lo spazio che si unisce tra volo e dinamicità.
L’uomo nell’ultimo secolo, complice la tecnologia e le scoperte scientifiche, ha reso la visione dai cieli sempre più dettagliata e precisa grazie ad aerei, satelliti, telecamere, sensori e droni che catturano ogni più percettibile istante visivo e fenomenico di mutamento atmosferico, la Terra risulta un pianeta vivo che, attraverso colori e forme, diventa l’ensemble di mutazioni, zone di terre emerse, mari e fiumi dove ogni istante si colora all’infinito, pronto a cambiare.
La Terra stessa, i suoi abitanti, i mutamenti climatici e atmosferici, la trasformazione ad opera dell’Uomo diventano quindi una unica grande tela dalla quale prende l’avvio il lavoro artistico di Maria Candeo, un’artista che non si ferma alla mera visione tracciata nel tempo fatta di confini fisici o politici, ma dove solido e liquido si fondono, i colori si falsano, il calore e il freddo rilevato dai sensori si trasforma in emozioni e sensazioni e la pittura diventa un magnifico spettacolo fatto di materia aggettante, di sottili velature, di colpi inferti con il pennello che si inzuppa di colore e scossa espressionista.
La tela diventa tavolozza e la pittura si fa alchemica, misteriosa e affascinante perché vibra delle stesse intense sensazioni trasmesse e filtrate poi con il “sensore personale” di Maria Candeo, la tela è il supporto perfetto a cui dar vita all’opera d’arte che si presenta: il quadro è sempre in perenne trasformazione, per l’artista non sarebbe mai completamente finito, sempre un’aggiunta da fare, sempre una linea da ritoccare, un colore da fluidificare o da caricare.
È per questo che negli oli presentati l’artista padovana trova la sua massima esplicazione, il suo messaggio passa con i colori ad olio come un continuo lavoro di plasmazione dove mettere, togliere, graffiare, strisciare, velare sono i verbi che meglio si coniugano in questo processo creativo.
In un unico supporto Maria Candeo riesce a far combaciare più texture attraverso costruzioni materiche e tonali: l’artista diventa un proseguo satellitare quando fotografa la terra dall’alto, un sensore quando ne cattura l’essenza specifica tra solido e liquido, continua come se fosse il punto di vista di un aereo che si interpone tra cielo e terra rilasciando la sua scia chimica sulla tela, a mezz’aria tra l’essere e l’apparire, è inoltre il punto di vista di un uccello che si fissa nei particolari più vicini, ma è soprattutto un drone, libero di viaggiare, di volare, di bloccarsi ed osservare per salire in alto e poi ridiscendere fino a toccare terra ed è solo in questo momento che la visione si fa arte perché raccoglie non più la bidimensionalità di ciò che si vede, né la tridimensionalità delle cose, né la quarta dimensione spazio-temporale, ma l’associazione di un nuovo modo di fare pittura, di vedere e di sentire sia gli spazi infiniti, infinitamente grandi e infinitamente piccoli, sia i silenzi onirici.
Le sue tele e le sue incisioni sono mappature viste dall’alto, dove il territorio è percepito da un satellite, ma cui un drone ha deciso di dare il proprio contributo spaziando tra realtà e proporzioni che si fondono poi in modo elegante e scrupoloso in una nuova carta geografica in quanto l’osservazione da un punto di vista differente rende in effetti piccole le cose, ma la presenza umana c’è, è muta e silente in una serie di trame chiarificatrici di cui è rimasta una labile traccia.
Il risultato culminante è una visione cristallina che diventa l’alter ego dello spazio terreno, è il cielo capovolto che guarda e rimira la terra.
Rimangono le tracce dell’uomo, costruttore ed edificatore che si insinua nelle anse irregolari del paesaggio: desertificazione, industrializzazione, antropizzazione sono evocate in modo libero seguendo una partitura costruttiva che Maria Candeo anima in una sorta di nuova Land art dipinta che si è racchiusa in partiture animate da luci e ombre e allo spettatore viene chiesto solo di entrare e perdersi in questi spazi dinamici dove la tela non è più il supporto per i materiali, ma un intreccio labirintico fatto di ricerca, di cura ed eleganza dove la materia ha creato forme e da cui è scaturita la costruzione definitiva dell’opera.
Gli oli si sovrappongano in campiture, in composizioni e velature, dove la tecnica e la padronanza della ricerca si respirano nei lavori dalle grandi dimensioni e si impreziosiscono nelle tele di piccolo formato in una pittura sempre attenta e mai caotica.
È un proseguo contemporaneo di opere dove si respirano le influenze da una parte viste nell’Informale materico tra Alberto Burri, Jean Fautrier e Jean Dubuffet, dall’altra invece nell’action painting di Jackson Pollock dove è la materia, è il colore che prendono vita e creano le forme.
È un incontro visivo con le emozioni del silenzio attraverso i colori e le assonanze con artisti che nel suo percorso Maria Candeo ha trovato: Mark Rothko con le sue opere color field “espressione delle emozioni umane fondamentali”, Gerhard Richter con le relazioni tra realtà e illusioni, Hubert Scheibl artista che sfida la percezione dello spettatore non descrivendo cose o idee, ma astraendo il concetto narrativo.
Tutti questi artisti sono accomunati e sentiti da Maria Candeo poiché vicini ad un unico denominatore comune: non hanno paura del vuoto, non temono lo spazio, non soffrono la vertigine e la paura di cadere, non dubitano di perdersi.
Un drone riferisce il punto di vista soggettivo e oggettivo di ciò che vede e trasmette, è una realtà visiva in cui Maria Candeo si intinge e riconosce, i soggetti passano alla riconoscibilità di animali in mandria, di donne siriane in fuga, fino ad avvicinarsi al particolare delle velme di paludi e luoghi della laguna veneziana o terre secche e aride che si fondono con rigogliosi colori di altre più fertili, strade, vulcani, montagne sensibili alle fotocamere termiche, elementi che ritornano nei titoli delle opere: “Vulcano/Volcano“; “Laguna di Venezia, velme e barene/Venetian lagoon, shoals and sandbanks“; “Troppo distanti per noi (donne siriane in un paesaggio dal satellite)/Too far for us (syrian women in a satellite landscape)“, mentre il “drone-Maria” si fa arte, si fa Drone Art per importare sulla tela la forza della percezione, la stessa che si ritrova nella meticolosa segnatura sulle incisioni realizzate.
Non ci sono più limitazioni temporali e di forma, nelle opere di Maria Candeo dall’alto si prende la libertà della visione e si osserva, si scruta e lasciano andare i pensieri che si incarnano sulla tela, lo spettatore diventa un’immagine silenziosa ed è catturato mentre guarda attentamente tutto, da ogni punto, in un mondo senza confini, novello Damiel, l’angelo del film di Wim Wenders “Il cielo sopra Berlino“, e come lui squadra ogni barriera, ogni singolo terreno, ogni fiume, ogni siepe e ogni uomo in cui si riconosce e di cui si inebria.