Pubblicato il 15 dicembre 2015 in http://vecchiatoart.blogspot.it
“L’unico mezzo con cui possiamo preservare la natura è la cultura”
(Wendell Berry)
Si è concluso il 12 dicembre l’accordo che i 195 stati presenti alla conferenza sul clima di Parigi hanno votato, il presidente della Cop21 Laurent Fabius ha specificato come questo accordo “è necessario per il mondo intero e per ciascuno dei nostri paesi. Aiuterà gli stati insulari a tutelarsi davanti all’avanzare dei mari che minacciano le loro coste; darà mezzi finanziari all’Africa, sosterrà l’America Latina nella protezione delle sue foreste e appoggerà i produttori di petrolio nella diversificazione della loro produzione energetica. Questo testo sarà al servizio delle grandi cause: sicurezza alimentare, lotta alla povertà, diritti essenziali e alla fine dei conti, la pace. Siamo arrivati alla fine di un percorso ma anche all’inizio di un altro. Il mondo trattiene il fiato e conta su tutti noi“.
L’attenzione quindi si è spostata verso l’ambiente, verso la presenza dell’uomo che su questo pianeta si è fatta sempre più preponderante fino a minacciare una futura crescita dell’ecosistema e dell’intera struttura di vita.
C’è il rischio di collassare e di perdere ogni forma vivente del pianeta Terra, il pericolo che per le generazioni future, se non si agisce ora ma solo a parole, è quello che si celebro la natura solo per mezzo di ricordi lontani e di rappresentazioni lasciate a memoria dell’uomo, arrivando davvero a parlare di “natura morta“, con l’accezione del termine che non indica più la raffigurazione simbolica e caduca della vita, ma l’estinzione totale.
Fëdor Dostoevskij ne “L’idiota” fa dire al principe Miškin che “la bellezza salverà il mondo“, una sorta di ideale di unione tra buono e bello, che si scoprirà disastroso, rimandando alla vicenda del principe Mishkin. Come per il protagonista del romanzo così il mondo non può essere salvato da un ideale, perché qualsiasi ideale trasportato nella realtà annega nel caos.
L’arte salverà la bellezza? La bellezza salverà il mondo?
Gli artisti in un passato recente hanno creato movimenti che si sono fatti portavoce di un arte ambientale, un’arte attenta alle esigenze di un mondo che stava cambiando e che irrimediabilmente oggi vive le conseguenze di gesti avvenuti: Fluxus, corrente nata nel 1961 dove lo sconfinamento dell’atto creativo nel flusso della vita quotidiana, in nome di un’arte totale che si trasformerà negli Happening e nelle performance espressive di danza, musica, poesia, teatro da cui prenderà l’avvio Joseph Beuys a cui si deve una sensibilità legata a temi ecologisti tanto da dare un essenziale contributo alla fondazione del movimento del partito politico de I Verdi in Germania.
Negli anni Settanta prende l’avvio la Land Art nata negli Stati Uniti d’America contraddistinta dall’intervento diretto dell’artista sul territorio naturale, specie negli spazi incontaminati come deserti, praterie, laghi salati, superfici aperte dove Dennis Oppenheim, Walter De Maria, Robert Smithson, Barry Flanagan, Richard Long e Michael Heizer, operano.
Il mito dell’american way of life ha accentuato da un lato l’idea della globalizzazione, dall’altro ha segnato la ripresa del “brutto” nel quotidiano: dal concetto di bello si è passati al kitsch, così come il cibo non è sopravvivenza o necessità ma si è reso sempre più legato all’immagine di un fast food a scapito della qualità, della produzione e della salute dell’uomo.
I grandi temi affrontati dal concluso Expo a Milano, la firma del trattato dei paesi della Cop21 fanno vedere come il mondo si sia votato alla bruttezza dando vita a disparità sociali, a ingiustizie morali ed etiche nei confronti non solo degli esseri umani ma del Pianeta intero: è necessario quindi un intervento radicale.
Il cibo è causa dell’inquinamento, dell’obesità e dell’anoressia (il troppo e il troppo poco sono diventati mali sociali), è elemento odiato, osteggiato, venerato dagli stessi artisti contemporanei, basti pensare alle opere di autori quali Tom Friedman, Urs Fischer, Jack and Dinos Chapman, Yinka Shonibare, Frank Gehry, Andy Warhol che hanno trovato spazio nell’ultima mostra “Arts & Foods” alla Triennale di Milano, una osannata performance dedicata al cibo nell’arte dall’Impressionismo e dal Divisionismo alle Avanguardie storiche, dalla Pop Art alle ricerche più attuali, con uno sviluppo della visione e del consumo degli alimenti.
Nella società contemporanea, fatta di materialismo e industrializzazione, questo processo si è certamente accentuato: se la bellezza salverà il mondo, l’arte salverà il concetto di bellezza? L’arte può salvare l’ambiente o ci rimarrà solo la rappresentazione della natura che c’è nell’arte?
Si rischia davvero di mettere sotto teca l’ambiente come esposizione di opera d’arte la stessa Natura se si pensa all’opera di Damien Hirst, uno squalo posto in formaldeide dentro una vetrina, “The Physical Impossibility of the Death in the Mind of Someone Living“.
Un doppio significato legato a quest’opera da dodici milioni di dollari, è un animale in via d’estinzione da porre sotto teca per essere conservato, ma è anche uno schiaffo all’umanità per il costo dell’opera pagata ed esposta alla popolazione umana che lotta tutti i giorni con altri tipi di “squali” e attacchi su ogni fronte: politici, economici, morali.