Pubblicato il 07 marzo 2017 in http://vecchiatoart.blogspot.it
“La bellezza da sola basta a persuadere gli occhi degli uomini, senza bisogno d’oratori”
(William Shakespeare)
Il bello dell’arte esce sempre, anche quando le cose sembrano poco conformi ad un gusto personale soggettivo, il bello in arte non si può quantificare, non è conforme ad un’unità di misura, anche se alla mente ritorna la memoria di certe performance e provocazioni come il “Fiato d’artista” di Piero Manzoni o “Aria di Parigi” di Marcel Duchamp, ingabbiare l’arte e il bello in sé non è concepibile.
Il bello in arte tra oggettivo e soggettivo arriva poi sempre a colpire l’immaginazione e a suscitare emozioni che, a volte, possono essere discordanti tra il sentire e il vedere.
Faticosa e impegnativa è l’arte di Franko B o di Hermann Nitsch, più concettuale e celebrale invece l’opera di Jeff Koons e Damien Hirst, più giocosa e diretta al pubblico invece la visione delle opere di Takashi Murakami.
Definire quindi il bello nel mondo contemporaneo non è facile, perché? Perché non è assolutamente concepibile inquadrare la bellezza di un’emozione, l’arte contemporanea è un susseguirsi di entusiasmi e contraddizioni.
Bombardati quotidianamente da immagini, social network che abbattono distanze e tempi, stimoli visivi continui, l’arte si ritrova quindi a far da portavoce e traino ai pensieri e ai concetti di ciò che piace e ciò che non piace, non trattandosi più di bellezza o bruttezza nell’arte, ma di ciò che provoca piacere ed emozione e ciò che invece finisce per allontanarsene.
Lo spazio alla creatività è lasciato a chiunque abbia voglia di esprimersi e di mettere in mostra un proprio pensiero, un’idea, un concetto che sia esso visivo o astratto, disturbante o piacevole poco importa, ma che sia in fondo un aspetto di un proprio “sentire”.
Il rischio è che chiunque può “mostrarsi” anche quando sarebbe il caso di “nascondersi”, questo quando non è necessario far vedere quello che si pensa perché si rischia di cadere tra le braccia della derisione e ridicolizzare quello che si deve dire effettivamente.
Perché ostinarsi a cantare quando non si ha il senso del ritmo e non si è intonati? Il piacere che scaturisce dai gorgheggi e vocalizzi non si discute, è il risultato che si dovrebbe rivedere.
Quando ci si pone davanti al pubblico il pericolo di non trovare filtri e di essere attaccati è posto sulla stessa riga di partenza: visibilità = attaccabilità, chi è migliore di noi ci sarà sempre e comunque e sa decretare in maniera soggettiva e oggettiva ciò che è bello e ciò che non lo è.
È un peccato vedere come certe (giuste) critiche poi arrivano a demolire il lavoro di un “artista” che, magari, non è pronto ad affrontare un mondo che non ha filtri, ma solo sincere obiettività.
Ci si potrebbe risparmiare assalti gratuiti quando non si ha la consapevolezza del bello, quando non si è pronti a ricevere giudizi sinceri sono inutili gli attacchi di pianto e di animi feriti: un’opera brutta, anche se contornata di lode e supporti esterni, se è brutta tale rimane.
Non esistono mezze misure quando si sancisce ciò che incanta e dà piacere da ciò che ne decreta il suo contrario, in fondo tutti sappiamo cosa si preferisce e non è solo un parere soggettivo.
La supponenza, la poca umiltà e soprattutto la scarsa curiosità di confronto portano sempre a passi fallaci e a nulle visioni realistiche, è solo quando si scende in campo che il giocatore deve dimostrare la propria capacità e forza, poco contano le sole parole a corollario di un bene che non arriva.
Azzardare è il primo passo, impegnarsi e ricercare il secondo, curiosare e studiare il terzo e passo dopo passo la corsa arriva poi da sola, difficile poi raggiungere chi corre poiché la strada è spianata verso un’unica meta, quella del riconoscimento del proprio pensiero creativo, dotati di sicurezza e conferme, questo è il processo che ci si aspetta e che ci aspetta ed è, senza dubbio, il bello delle cose.