Pubblicato il 28 marzo 2017 in http://vecchiatoart.blogspot.it
“Cambia idea.
Non hai mai guardato il sole al mattino?
Hai visto la luna? Non vuoi più vedere le stelle né l’acqua di sorgente?
Vuoi privarti del sapore della ciliegia?”
(“Il sapore della ciliegia” – film di Abbas Kiarostami, 1997)
Che cosa emoziona uno spettatore? Cosa fa scattare in noi l’idea di bello e di piacevole? Quali sono le idee che scaturiscono nel piacere?
La visione, i sensi, il bello e il brutto soggettivo e oggettivo, tutto contribuisce a far si che ciò che piace arrivi dritto al cervello passando per il cuore e agendo spesso d’istinto.
Ad esempio, un cesto di ciliegie porta alla mente di chi scrive un ricordo sopito di bambino curioso che, insieme al nonno, era solito raccogliere questi rossi e dolci frutti dalla pianta del giardino di casa, il loro colore rosso, la lucentezza, la dolcezza al palato, sono diventati col tempo l’idea di una petite Madeleine proustiana che fa riemergere, uno dopo l’altro, ricordi e piaceri.
Una ciliegia, diventata col passare degli anni un piccolo rifugio dal mondo e dal quotidiano, é associata ad un piccolo piacere, ad un momento d’infanzia felice e pieno di vita, di colori, di gioia.
Un breve momento di ricordo che, con gli anni, é rimasto in un cassetto pronto ad aprirsi all’occorrenza e a farsi beato di ricordi e immagini che la vita spesso falsa grazie alla memoria e alle percezioni.
Immagini, sono loro le responsabili del viaggio mentale emozionale che parte e arriva ad ognuno di noi, ogni spettatore diventa osservatore di sé prima che del mondo circostante, bagagli di cultura personale che si fondono con il mondo esterno, petite Madeleine che arrivano, passano, giocano e si soffermano per poi riprendere la loro strada, nuovi ricordi da mettere nel cassetto della memoria che si sommano e scalzano altri più in fondo che poi salteranno fuori senza neppure chiederlo e senza accorgersene, un po’ come succede con quel paio di calzini nascosti in un angolo in fondo in fondo, nel buio, senza bisogno di cercare la memoria (e i calzini) poi scattano fuori!
Qual é l’immagine che più identifica un percorso svolto nella vita? Una scampagnata con i cugini lungo gli argini di un fiume in primavera? Un castello di sabbia al mare? Il profumo del ragù la mattina presto nei giorni di festa? Un artista sconosciuto e amato e poi rivisto e studiato da adulti? Le immagini hanno la loro forza, sono la nostra forza, ci si aggrappa nei momenti in cui la nostra mente e sensibilità abbisogna e non si lasciano andare quasi come porto sicuro per una nave in tempesta. Sì, una tempesta emotiva fatta di compiti e doveri, di gente che ogni giorno arriva e si perde, di nuovi affari e nuove proposte, di giorni che si fanno sere e via via fino a completare un tempo che a tutti é dovuto, ma che a nessuno é regalato.
Un artista con le sue immagini arriva al cuore di ognuno, non lascia mai solo la propria interpretazione, ma si fa portavoce di un pensiero comune, esprime se stesso e nello stesso tempo racconta un momento intimo che riesce poi a condividere con l’esterno, è un continuo mostrare e mostrarsi.
Nelle immagini si ritrova l’artista, ma pure un po’ di noi, noi spettatori.
Un’opera di Pablo Picasso é indubbiamente un’opera di Pablo Picasso, per stile, segno, colore, modo di esecuzione, così come per Marc Chagall o per Lucio Fontana, Giotto sarà sempre Giotto così come Michelangelo sarà sempre Michelangelo, perché le loro opere sono le loro immagini, sono i loro cassetti aperti, le loro ciliegie che riempiono gli occhi prima e la bocca poi.
Capita lo stesso con le opere d’arte, prima ci si riempie gli occhi, si guardano le forme, i colori, le pennellate su una tela, i segni in una scultura, i suoni di una voce che parla, poi ci si riempie la bocca con altrettanta dovizia e allora, solo allora, le parole escono, anche quando si sta muti e non si può far a meno di parlare, perché il silenzio é già una forma di comunicazione, col silenzio le parole dettate dagli occhi escono poi meglio.
Diffidare di chi parla parla e poco ascolta o poco vede, perché riesce solo a guardare se stesso e mai oltre, le parole non sono mai sincere e sentite, anche chi produce arte senza anima, senza colmare gli occhi alla fine ingurgita parole non richieste, parole non mai espresse.
Le ciliegie più buone? Quelle lavate sotto il rubinetto dell’acqua in giardino dal mio nonno, fresche e desiderate perché provenienti direttamente dalle sue mani, le più rosse e le più gustose perché regalate con gli occhi, conservate con il cuore, ma soprattutto donate.
Le opere d’arte più buone? Quelle desiderate e provenienti dagli studi d’artista, dagli atelier, dai garage, dalle stanze che sanno di sogni, derivate direttamente dalle mani di chi ha creato, le più indimenticabili e gustose perché regalate con gli occhi, conservate con il cuore, ma soprattutto donate.
La fame d’arte non si placa poi, spinge l’uomo a volerne ancora, ancora e poi ancora, perché di occhi che si aprono ogni giorno e di bocche che si riempiono c’é sempre bisogno e l’arte, gli artisti e le opere stesse sono come il vecchio detto per le ciliegie, una tira l’altra, ancora, ancora e poi ancora…