“Puoi impedire a un uomo di rubare, ma non di essere un ladro”
(Arthur Schnitzler)
“In questo mondo di ladri c’è ancora un gruppo di amici che non si arrendono mai”
(Antonello Venditti)
I furti d’arte sono visti spesso in sordina tra le pagine dei giornali e le news dei tg nazionali, ma sono all’ordine del giorno, non fanno notizia inseriti come sono tra un servizio ambientalista e un fatto di cronaca locale.
La cultura non ha abbastanza voce per farsi sentire e per gridare “al ladro! Al ladro!” quando viene depredata e violata passa spesso in secondo piano, ma rubare un’opera d’arte è sottrare all’uomo la possibilità di godere dell’immagine e della bellezza di un pensiero che viene levato alla vista e all’emozione personale.
Ma chi ruba? E, soprattutto, perché si ruba? Spesso i furti sono commissionati da collezionisti e appassionati anonimi che, pure di godere dell’opera in maniera egoistica e di possesso, decidono di sottrarla all’uomo per diventarne gli unici padroni e possessori, altre volte la sottrazione indebita arriva per motivi ideologici, politici, patriottici, altre ancora per semplice spregio dell’arte.
Il caso più eclatante di furto d’arte nella storia resta quello della Gioconda di Leonardo da Vinci dal Louvre nel 1911 e poi ritrovata due anni dopo a Firenze, sotto il letto dell’imbianchino Vincenzo Peruggia.
Per il nostro Paese invece il furto più pesantemente doloroso resta la sottrazione a Palermo nel 1969 della Natività di Caravaggio, mai più recuperata.
Sono spariti alla vista pubblica opere di Rembrandt, Paul Cézanne, Auguste Renoir, Vincent Van Gogh, L’Urlo di Edvard Munch è solo uno degli ultimi casi di furto che, fortunatamente, si è concluso in maniera positiva nell’agosto del 2006.
Capita anche nel mondo più contemporaneo e a noi vicino di trovare delle situazioni molto simili al furto: installazioni che scompaiono, muri di street artist che sono strappati per essere venduti o esposti in mostre come nei recenti casi di Blu o di Banksy o, per restare in territorio nazionale, la sparizione di cinque opere urban dell’artista milanese Pao a Dolo, comune della provincia di Venezia.
Le opere di Pao, colorati panettoni-paracarri a forma di quattro pinguini e una coccinella, erano stati collocati lo scorso 26 maggio in occasione del I DoLove Festival, festival di street art, di fronte al Monumento ai Caduti della Prima Guerra Mondiale, vicino ad una fermata di autobus della scuola, sono spariti, forse rubati, ma senza saperne la causa, forse allontanati da chi ha provato fastidio nel vedere colorata la città e sfregiato a suo dire il monumento ai caduti.
In fondo, l’arte è un’espressione di un pensiero, spesso di una generazione nuova che si affaccia al mondo, il giovane artista milanese è uno dei portavoce dell’arte urban e dei nuovi artisti che colorano la città realizzando opere che danno vita e pongono l’accento a pensieri di nuove forme d’arte.
E poi quel monumento ai caduti, lì, posto per ricordare giovani del passato, pieni di speranze, di sogni e di ideali, che hanno combattuto una guerra che ha, fisicamente, spezzato le loro vite e portato via l’onda del loro futuro che per loro non si è mai realizzato, non c’è più stato, così quei giovani caduti con il loro sangue hanno permesso l’avanzata di nuove idee e di una unità conquista con la loro vita, per questo è stato essenziale ed importante ricordarli con un monumento che celebrasse le loro vite.
Ora, a distanza di un secolo dalla Prima Guerra Mondiale, nuove guerre e nuovi pensieri si sono dovuti combattere e i giovani di oggi hanno insito in loro la stessa voglia di speranza, di sogni e di ideali di quelli di allora.
Fisicamente loro non hanno perso la vita, ma ogni giorno viene richiesto un combattimento al fronte tra ricerca di se stessi, di dignità lavorativa, di affermazione per riuscire a cambiare le cose per un futuro che dovrà avvenire, perché se è vero che le nuove generazioni hanno Tutta la vita davanti, come nel celebre titolo del film di Paolo Virzì del 2008, è anche vero in fondo che il proseguo del passato nell’oggi non va scordato, va valorizzato e ricordato.
Quanti si sono accorti del monumento sopra citato fino ad oggi? Serviva una serie di pinguini con coccinella annessa per rivedere ciò che è accaduto?
Il passato, è spesso tirato in ballo quando fa comodo per “non dimenticare”, ma in realtà è scordato volentieri e senza mezze misure, che dire allora di siti archeologici abbandonati a se stessi, dei recuperi tralasciati, di opere d’arte occultate nei caveau e nei depositi polverosi dentro casse o della non valorizzazione della cultura territoriale nascosta e trascurata?
È questo il Paese che si vuol lasciare alle generazioni che verranno?
Un affresco di Massimo Campigli, realizzato nell’atrio di Palazzo Liviano tra il 1939 e il 1940, presso l’Università degli Studi di Padova, rappresenta ancor oggi in maniera significativa la storia, vista come archeologia, come fonte della cultura italiana, vero patrimonio degli studiosi e della gente comune su cui si trovano seduti gli studenti, il futuro, simbolo di un presente che poggia sui sacrifici e sulla forza di chi ha saputo lottare e sacrificare per rendere il mondo migliore.
I pinguini di Pao ne sono il proseguo, il passato con il presente in un unico spazio, in un unico luogo, ora però non ci sono più, forse se ne sono andati da soli perché non desiderati, non voluti, pronti per un altro luogo, per un casting che li accolga e che non siano di rimpallo con un “le faremo presto sapere” come capita a chi ha voglia di mettersi in gioco.
Forse sono stati rubati per motivi ideologici, forse sono finiti a casa di qualche collezionista che se ne bea ogni giorno, il fatto è che della loro presenza non vi è traccia, anche questo è un segno, un segno dei tempi dove restano solo foto e raffigurazioni e tutto si fa sempre più virtuale, le immagini corrono lungo il web, attraverso i social network dove si combinano intrecci collettivi di lavoro, di amicizia, di amore e si “rubano” idee e pensieri che scaturiscano in altrettante rappresentazioni.
Riportare a casa ciò che è stato sottratto è un dovere, per la comunità, per chi lotta ogni giorno e principalmente perché rubare o sottrarre i pensieri per tenerli nascosti è una forma di becero egoismo che non porta a nulla, solo a lasciare un vuoto culturale e generazionale.