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Di fronte alla Chiesa di San Simeon c’è una donna grassa, distesa ai piedi della scalinata della stazione, è nuda e si guarda compiaciuta in uno specchietto…ma non è una figura umana, non è una persona viva e reale è una presenza salda e opulenta, è una scultura in bronzo di Fernando Botero, “Donna con specchio”.
Stupore e meraviglia. E’ questa la prima impressione che si ha quando si arriva a Venezia dalla stazione dei treni di Santa Lucia e ci si trova davanti alla scultura.
La mostra di “Botero a Venezia. Sculture e dipinti”, sculture monumentali all’aperto in uno spazio pubblico (la prima mostra risale al 1991 a Firenze) è un modo di portare l’evento della scultura a contatto con il pubblico e con la città.
Venezia è stata definita dall’artista “Una città sensuale, corporea, dove tutto è voluttuoso, erotico, tangibile, carnale…gli odori, la luminosità…ogni pietra e pezzo di marmo trasmettono emozione. A Venezia c’è l’acqua, l’elemento vitale per eccellenza.”
Le sue sculture che si snodano lungo il Canal Grande, vivono nei giochi di riflessi con la luce e l’acqua “elemento vitale” e primordiale, enormi e possenti presenze bronzee e primitive.
Lo stupore di turisti che visitano Venezia e si trovano davanti queste sculture è all’inizio un misto fra lo sconcerto e la sorpresa, è facile notare nei volti una successiva fase di comicità che scaturisce nel riso, per poi associarsi ad una sorta di innamoramento ed identificazione con le forme presentate. La densità prorompe dalle possenti e opulente presenze di bronzo che incrociamo per calli e campielli a Venezia.
Le grasse, grosse figure di Botero accolgono i passanti in una città d’acqua; le loro floride carni, imbevute di sangue e calore colpiscono l’immaginario dello spettatore divenendo archetipi contemporanei della materialità come moderne Veneri callipige.
Quella morbidezza di panna cremosa pronta per essere mangiata, addentata, succhiata, posseduta, riporta all’immaginario di favola, di magia, di spettacolo, di folclore respirato nelle terre colombiane, dove questi grassi giganti popolano un mondo fatto di altrettante adipose situazioni.
E’ una costruzione architettonica grazie al corpo che diventa monumento lucente e sereno, direttamente conseguente ad una ricerca perenne chiara nei dipinti e più che mai evidente nella scultura.
Si respirano le stesse vite che uniscono i personaggi boteriani con quelli di scrittori ai quali l’autore è debitore: i personaggi chiassosi e colorati del connazionale Gabriel Garcia Màrquez (nel 1983, Botero illustra “Cronaca di una morte annunciata” per la rivista “Vanity Fair”), o le magie e i girotondi pirotecnici di parole e immagini che prendono vita nei racconti della cilena Isabelle Allende o del brasiliano Jorge Amado.
Memoria di un passato, memoria collettiva epica e di favola, dove i personaggi di Botero sono quelli che con la loro presenza occupano anche il nostro spazio.
Questi colossi non esigono spiegazioni, li scopriamo come bagaglio di una cultura, di un popolo che nella pittura o nella scultura rivivono nei volumi e nelle forme.
Il nudo ostentato dai figuranti di Botero, non risulta volgare, ma debitore di una cultura primitiva, dove in un corpo nudo rigonfio di carne e vita, lontano dai canoni estetici occidentali, si ritrova in una forza ludica che permette di poter giocare con le grandi bambole dalla bocca fanciullesca, dallo sguardo innocente, rivestite di misere piccole collane e pellicce che avvolgono le loro fiorite carni.
Le figure femminili dipinte o scolpite, risultano sempre nei confronti del maschio rappresentato, imponenti e padrone del gioco allestito; gli uomini appaiono come semplici fantocci, burattini in gioco e in potere di donne da cui cercano la protezione o il piacere. Queste stanche matrone si stendono e riposano lo sguardo vacuo verso orizzonti lontani, verso mondi arcaici e segreti che vanno al di là dello spettatore e le rende irraggiungibili.
Nel loro atteggiamento si scorge un nido protettore, un seno materno che protegge e che l’uomo, come bambino o come adulto lussurioso, desidera possedere per riappropriarsene e ritornarci.
Proprio gli sguardi così vacui e trasognati delle protagoniste catturano lo spettatore e lo proiettano verso un mondo dove tutto risulta a misura dell’uomo di Botero dove anche il paesaggio, l’aria, gli animali, le sensazioni si gonfiano e deformano per adattarsi in questo spazio fatto di presenze rigonfie e asessuate.
Non c’è mai erotismo o volgarità nella rappresentazione di un corpo nudo, sono corpi che giocano, innocenti si mostrano e compiacciono delle loro molli carni e salda muscolatura che esplodono come presenza fortificata; il corpo non diventa una roccaforte di piacere e di pulsione erotica: sono grandi bambini che si mostrano.
Il mondo dipinto dall’artista viene popolato dalle stesse corpose presenze, è facile imbattersi in una ricerca che respira a tuttotondo anche nei quadri, dove le figure popolano ambienti e paesaggi circondati da adipose esistenze naturali e animali.
Gli interni borghesi, la descrizione minuziosa di stanze da letto, cucine, aperture verso luoghi di divertimento come l’arena o le feste di paese tutto vive e si sviluppa in questo mondo tra il favolistico e il magico.
In un quadro presente in mostra come “Uomo che mangia”, non si è affatto stupiti di trovare la presenza ciclopica del suo protagonista immersa in elementi che costruiscono il dipinto con una forza scenica da rendere naturale l’ambientazione in cui è collocata la natura morta sul tavolo: enorme il filone di pane, grasse le posate, dense le patate e la carne sul piatto di portata e dietro tutto questo l’uomo che compie il gesto di mangiare. Lo spazio si dilata, la forma si adatta ed espande e lo spettatore assiste al convivio con sguardo partecipe, tanto che la forchetta con illusione prospettica esce dal tavolo rimanendo in bilico e prostrata verso il nuovo commensale che viene a far parte della composizione: per primo il visitatore è posto quindi a contatto con il mondo di Botero, un invito rivolto ad affondare gli occhi in questo tripudio fatto di volumetrie maestose quanto semplici.
Anche quando non si è alla presenza di figure umane o animali, il paesaggio prende vita propria e da un momento all’altro si è pronti a vedere scaturire una figura, un gioco di forme che presto avanzi con il suo sguardo vuoto e impassibile.
Nel quadro “La strada”, in un paesaggio muto l’aria risulta ferma e immobile. Ancora una volta le strutture semplici e massicce risultano le vere protagoniste della composizione, anche il fumo dal camino che esce da una delle abitazioni fa percepire, nella sua densa e pastosa costruzione, un interno abitato dai mastodontici protagonisti dell’arte boteriana, situazioni fatte di storie e leggende, popolate da personaggi sempre caratterizzati in maniera esasperata.
Punto a se stante merita il colore della tavolozza dell’artista, un colore gioioso, che ben esprime lo stato d’animo dei suoi personaggi, le situazioni in cui vivono, essi non sono oberati di fatica e nessuna preoccupazione sembra sfiorarli, non c’è spazio per la critica sociale, sono immersi nella calma, vivono in uno stato d’attesa in cui risalta una luce atemoporale, come afferma lo stesso Botero: “Da circa quindici anni lavoro con quattro colori, che sono il giallo ocra, il blu cobalto, il rosso cadmio e il verde smeraldo. Poi il bianco e il nero. Punto e basta. Da lì nasce tutto”.
L’interesse per le forme, la massa, vissute in modo bidimensionale nella ricerca di composizione pittorica si sviluppa nella scultura, ecco la presenza di figure isolate nella loro imponenza monumentale, in quanto non più inserite in un contesto narrativo, ma divengono forme totemiche, monolitiche, salde nella loro presenza dove la luce scivola sulle sagome e le caratterizza.
Le giunoniche membra prendono vita all’aperto, sotto la luce solare, per poi lasciarsi accarezzare dall’acqua salmastra della città lagunare in un continuo gioco di luci e ombre, di rapporti e di rimandi come se le stesse rappresentazioni sfuggissero al loro peso materico per vivere di vita propria.
Il mistero dell’acqua che si riflette sulle levigate e compatte sculture in bronzo, sembra farle respirare e da un momento all’altro staccarsi dai loro basamenti, alzarsi e procedere con passo sicuro verso chi le osserva; sembra che la scultura di Botero abbia trovato qui il suo habitat naturale. E’ un ritorno all’origine, all’acqua e alla cultura di carattere mediterraneo dove le presenze di un’antica scultura del passato (a cui Botero è debitore) si ritrovano orgogliose nelle stesse compiaciute masse fertili.
Tra gli artisti più amati e studiati da Botero, troviamo Giotto, Masaccio, Piero della Francesca, soprattutto Rubens, con il quale condivide l’appassionato gioco delle forme e dei volumi.
L’artista riprende gli insegnamenti e ne fa forme interpretative che non vogliono essere un semplice gioco, ma un percorso tra le grandi figure del passato: è un modo di porsi, realizzando le sue riconoscibilissime quantità di materia tra le altrettanto riconoscibili doti di rappresentazione di spazi e modelli dei maestri dell’antico.
Vita, gioia e colore nell’arte e cultura sud americana, presenza scenica e vitale di opulente giocosità di corpi, sono elementi che ritroviamo nel modo di fare arte di Botero, la musicalità delle sue opere finisce per decantare la terra del sud, la terra dove è nato e dove ha respirato i profumi e immerso gli occhi nei colori della sua città natale, Medellin.
L’arte diventa un mezzo per esprimere il suo sentimento per un mondo nato colonizzato, reso variegato da incroci etnici, intriso di magie e favole, di cultura e tradizioni, un mondo che si rifà al passato ma da cui trae una propria forza.
Questo è Botero dove “l’arte è reinterpretare con passione la nostra energia vitale”.