Pubblicato il 4 luglio 2008
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Mostra Bruno Ezio Caraceni (1927 – 1986), 12 luglio – 31 agosto 2008, Palazzo Ragazzoni Flangini Biglia, Sacile
Un tema ricorrente nella bibliografia su Bruno Caraceni (Chioggia, 1927-1986), esigua ma punteggiata dall’approvazione di molte tra le firme più illustri della critica d’arte italiana (Lionello Venturi, Maurizio Calvesi, Filiberto Menna, Alberto Boatto, Maurizio Fagiolo…), è lo stupore per la sua mancata acquisizione nella rosa degli artisti saldamente acquisiti, gratificati dal successo, dopo che egli è stato invitato a partecipare a ben tre edizioni della Biennale di Venezia (1956, 1958 e 1968).
Questa mostra antologica, accompagnata da un accurato catalogo, cerca di porre rimedio a questa “dimenticanza”, rievocando una vicenda artistica autentica e intensissima per il pensiero e l’operatività che l’hanno sorretta. Una vicenda tanto più interessante in quanto avvenne nel dialogo stretto con alcune delle esperienze più significative dell’arte del Secondo Novecento: lo Spazialismo di Fontana, l’Informale romano, il materismo di Burri, le ricerche sulla nozione di “struttura” dei primi anni Sessanta.
Dopo aver frequentato l’Accademia di Venezia nel periodo di fervida ripresa artistica degli ultimi anni Quaranta, all’aprirsi del nuovo decennio Caraceni è a Roma, in quella via Margutta che è il fulcro giovane e vivace della vita artistica e intellettuale della Capitale, dove hanno gli studi, tra gli altri, Carla Accardi, Giulio Turcato, Piero Consagra, Alberto Burri. Lì, dopo le prime prove astratte, dettate dalla necessità di aggiornamento sui grandi maestri internazionali, quali Klee e Picasso, Caraceni guarda soprattutto alla ricerca di Burri. Riflettendo sui Sacchi di quest’ultimo – e comprendendoli appieno – egli pare anticipare lo stesso maestro nell’acquisizione tecnica della plastica fusa spalmata su tela, tecnica sviluppata in un ampia serie di lavori degli anni 1957-1958, che vedono il trionfo della materia bruta, tra bolle e bave filanti, e costituisce un pregevole contributo all’Informale.
Ma l’invenzione più convincente di Caraceni risale al 1959, in fase di superamento dell’Informale, quando egli produce dei pannelli dove introduce filo metallico fissato su chiodi. Egli intreccia un originale tessuto spaziale, che disegna raffinate geometrie stagliandosi esile e poetico su fondo bianco. È un’arte che volge verso l’impercettibile e richiede una fruizione contemplativa, mentale oltre che visiva: il filo visualizza schemi di relazione tra le forme, rapporti reciproci, sintassi di legami interni. Magari potremmo immaginarci di percepire il ronzio di una vibrazione sottile emessa da quei collegamenti a rete, come quello che ci dice che un elettrodomestico è in funzione, che nei suoi congegni scorre l’energia.
Inoltre, se consideriamo che il filo invita lo sguardo dello spettatore a seguire il suo andirivieni, cogliamo un certo avvicinamento alle indagini di tipo Optical, interessate all’analisi della percezione e delle sue strutture: l’opera si dichiara, testualmente, come campo visivo, in cui il filo, equivalendo di fatto al percorso dell’occhio dello spettatore, rappresenta il grafo del processo del vedere. Più che mai, quindi, la linea-oggetto veicola una sottile tensione dinamica, come un sismogramma – i futuristi avrebbero parlato di “linea-forza”.
Queste e altre tappe dell’arte di Bruno Caraceni saranno documentate in mostra e nel catalogo a cura di Guido Bartorelli, con scritti e apparati del curatore, di Massimiliano Sabbion e Federica Stevanin.