Pubblicato il 29 maggio 2015 in http://vecchiatoart.blogspot.it

Ci sono tanti modi per essere a contatto con l’arte contemporanea, spesso vista come qualcosa di ostico e lontano, si susseguono commenti tipici quali “Cos’è questa roba?“, “Potevamo farlo anche noi!“, “Io non capisco niente se questa è arte“, si vuole spesso a tutti i costi entrare a capire un’arte sempre più concettuale e sempre (pare) più distante dal pubblico.
L’arte dovrebbe parlare a tutti!“, beh non sono sempre d’accordo con tale affermazione, mica si può arrivare a tutti, mica si può parlare a tutti, qualcuno ascolta, altri si perdono, altri ancora proprio non ci sono…
Come fare allora perché l’arte venga assorbita, mangiata, inghiottita e alla fine digerita? Già nel 1960 alla Galleria Azimut di Milano ci aveva provato Piero Manzoni con la performance “Consumazione dell’arte dinamica del pubblico divorare l’arte”, l’artista aveva consegnato al pubblico delle uova sode contrassegnate da una propria impronta digitale agli spettatori con l’invito a “mangiare l’arte“. Ma ancora forse non basta…

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Si sente l’esigenza di fare propria l’arte nella semplicità delle cose quotidiane, facile come un bicchiere d’acqua, anzi no! Come un bicchiere di Campari con la sua bottiglietta dalla caratteristica forma disegnata e ideata da Fortunato Depero oppure come masticare e succhiare una caramella, roba da bambini! No no, roba d’arte e da artisti del merchandising come per le nuove confezioni limited edition delle caramelle Frisk firmate dall’artista pop giapponese Takashi Murakami, dove ogni caramella riproduce teschi, fiori e occhielli dell’opera dell’artista nipponico del Superflat.
Ma se per arrivare a tutti l’artista deve essere di tutti non si arriva all’abominio e allo scandalo di colui-che-si-svende al mercato e al facile denaro?

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La polemica è sempre in atto: se è per pochi l’arte non parla al grande pubblico, se è per tutti è arte popolare e non degna di nota…il giusto non sta nel mezzo: prendere o lasciare.
Lo faceva Keith Haring negli anni Ottanta con i cappellini, magliette e spille invadendo la metropoli di New York prima e il mondo poi, lo ha fatto Salvador Dalì firmando i Chupa Chups nel 1969 e una famosa linea di profumi con le confezioni che riproducevano le sue sculture con nasi e bocche .

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Quindi? Le operazioni commerciali cosi prodotte fanno vendere l’arte? Fanno avvicinare il pubblico agli artisti e gli artisti al pubblico? Forse danno visibilità questo è indubbio, poi se il prodotto sia buono o meno è un gioco che si perpetua al servizio della società. L’arte è quindi una caramella dove “basta un poco di zucchero e la pillola va giù”? Murakami (l’ultimo in ordine di visibilità) riesce a vendere il prodotto? Già nel 2003 aveva disegnato per Louis Vuitton la borsa Cherry Blossom, passando poi agli skateboard con disegnate superfici Superflat e con manga. Quindi profumi per Shu Uemura, magliette, stivali, cinture, peluche, gadget.
È una nuova frontiera, forse poco battuta nel contemporaneo, quella di sottostare a committenze e ad una “arte in merchandising“, dove a fianco della simbologia e del valore artistico le realizzazioni artistiche possono accostarsi al grande pubblico.
Il discorso si potrebbe protrarre verso altri lidi e altri artisti tra arte e pubblicità (gioco reciproco) ma il binomio arte e cibo (che tanto di moda ora appare in concomitanza con l’Expo 2015) ha bisogno di tempo, di essere fagocitato e poi digerito, capito e infine come per tutto…defecato, ma la Merda d’artista manzoniana è un’altra storia.

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