“Elevo questa spada alta verso il cielo
Giuro sarò roccia contro il fuoco e il gelo
Solo sulla cima
Arriveranno in molti
E solcheranno i mari
Oltre queste mura troverò la gioia
O forse la mia fine comunque sarà gloria
Lotto per amore, lotterò per questo
Io sono un guerriero
Veglio quando è notte”
(Guerriero – Marco Mengoni)
Barbara Pigazzi, si fa guerriera con l’arte usando l’arma che più le è congeniale: la fotografia.
La forza è una violenza emotiva attraverso il calore che è inscenato in installazioni tra oggetti e fotografie in cui si fa strada il simbolo per eccellenza dell’amore: il cuore.
Il cuore rappresentato è maltrattato dalla sudditanza di una donna guerriera in veste di geisha, simbolo della sottomissione del piacere e della cultura che la opprime, ma in realtà forte e combattiva, mai paga, mai arrendevole.
È un organo che pulsa quello rappresentato, nudo e vero, sede e motore della vita, responsabili degli attimi emozionali di cui l’esistenza si circonda, ma spesso maltrattato, usato e calpestato da chi dovrebbe proteggerlo e conservarlo con preziosa attenzione.
Spilli, chiodi e catene diventano il simbolo del martirio a cui il cuore è sottoposto, sanguina dalle ferite inflitte provocando un dolore che poi si rimargina, col tempo, ma di cui restano i segni.
Il rosso del sangue fa da contraltare alla forza che ne rappresenta, alla vita che scorre nelle vene e che come propulsore anima il corpo intero.
Barbara Pigazzi è una guerriera, una donna forte, che ha deciso, attraverso gli scatti fotografici, di allestire un cuore che ha subito violenza emotiva: un vaso di vetro contenente formaldeide conserva un muscolo cardiaco, a ricordo e custodia di un pensiero passato.
È evidenziato il “tempo perduto” per mezzo di una reminiscenza che prende forma in uno scatto fotografico dove un cuore è tenuto tra le mani da una donna di cui si vede solo parte del corpo, le sue mani sollevano l’organo all’altezza del pube quasi ad indicare che la violenza del pensiero e del sentimento lacerato che è più forte della violenza fisica subita.
Un cuore ferito, anche se fa male, continua a pulsare; un vero guerriero continua la lotta e quando cade poi si rialza, imbraccia la spada e ritorna a guardare fisso davanti a sé senza temere nuovi colpi, ma imparando a parare più che a trafiggere.
Altri due scatti, altri due fermo immagine si susseguono nel percorso visivo dell’artista, si bloccano due rappresentazioni in cui è ripreso il tema del cuore da un lato, il fiore dall’altro, al centro la donna guerriera: si rivelano così la fragilità delle cose e dell’essere, un messaggio rivolto a chi calpesta i sentimenti e tradisce la fiducia, una violenza intima.
Barbara Pigazzi è una delicata e forte fotografa, è diventata un’artista, ma soprattutto è e rimane una guerriera, il cuore raffigurato è martoriato ed è quello di un’artista che riesce a fotografare un conflitto quotidiano fatto di sentimenti, dubbi e battaglie.
Sanguina il cuore, fa male, ma rinasce e batte ancora, sempre, con cadenza e forza, è un cuore in cui è facile rivedersi, difficile da scordare, empaticamente da vivere.
Il cuore pulsa, orgasma tra le lenzuola a contatto con l’anima dell’essere con cui diventa un unico corpo, una sola vita, ma che succede quando il respiro affidato all’altro spirito è offeso e violentato?
Che cosa capita a quel cuore che fino a prima pulsava amore ed emozione e ora invece si ritrova vessato e dolorante?
In una sola immagine Barbara Pigazzi racchiude un corpo ferito: una giovane donna china su se stessa si sostiene con la forza ad una stampella e si staglia tra le lenzuola consunte di un letto, dove lì l’atto si è compiuto.
È un corpo di donna, nudo, dai lunghi capelli scuri che coprono il volto perché non conta ciò che esprime il viso, ma ciò che si esprime con la fisicità, chi parla è il corpo muliebre senza accenti, senza costrizioni, libero solo di esprimere la propria angoscia.
Si intravede, in questo scatto fotografico, un dolore lacerante interiorizzato che esce con tutta la vogliosa rabbia mescolata tra la desiderio di rivalsa e necessità di ricominciare a vivere e ferite che non sono cancellabili, ma rimangono impresse come segni sulla pelle.
La stampella è il sostegno di una disabilità fisica che si trasforma in incapacità armonica di vivere, è il perno sul quale appoggiarsi, è la forza che permette di sollevarsi e continuare, una moderna pietas, un’odierna sacra deposizione che si accascia in un groviglio emozionale dove si concentra l’attenzione dello spettatore sul braccio inerte del soggetto che si conclude con una mano aperta e rivolta verso l’alto.
Il palmo dischiuso è una richiesta di un aiuto, quasi ad elemosinare pensieri dall’esterno, il gesto si pone in maniera mansueta contro la violenza, ed è un’idea di dolce compassione che si lega al principio di apertura verso l’esterno.
È la mano sinistra quella rappresentata, la mano che arriva, ancora una volta, dritta al cuore, dritta alla sede delle emozioni di quel custode della vita responsabile della gioia e del dolore: “Custodisci il tuo cuore più di ogni altra cosa, poiché da esso provengono le sorgenti della vita.” (Proverbi, 4:23)