“…e come tutte le più belle cose
vivesti solo un giorno come le rose.”
(La canzone di Marinella – Fabrizio de Andrè)
Perché un essere umano arriva ad infierire su un altro suo simile solo perché presumibilmente debole e privo di difesa? Perché i sentimenti cambiano e dall’amore si passa all’odio? Che cosa spinge un uomo ad usare violenza verso una creatura più fragile, spesso verso una donna?
Ogni giorno i media si riempiono di violenza perpetrata verso chi non trova rispetto, amore e protezione e non si contano gli episodi di femminicidio, di violenza carnale e psicologica ai danni delle donne.
La violenza dilaga, dal singolo, al gruppo che schernisce e sporca la purezza dell’anima più debole, un corpo che cade sotto i colpi di chi usurpa e lo viola facendolo sentire un oggetto, una “cosa” su cui scaricare rabbia e paure, un corpo che si trova abusato e usato, un’anima ferita, divisa in due, tra ciò che segna il mondo prima della violenza e il dopo, mentre il tempo scorre e continua.
È una visibilità apparente ed esteriorizzata per chi subisce violenza, ma in realtà si cela il dolore e l’amore calpestato che, a prima vista, non è quasi mai notato per paura, per vergogna, per dolore.
Non si parla volentieri della violenza, si preferisce tenerla nascosta, sussurrata, quando invece la si vorrebbe gridare alla terra questa sofferenza, ma come fare quando le parole non sono sentite e rimangono mute e soffocate? Ci vuole forza, sostegno e cultura perché le parole imparino a sbrogliarsi nell’aria, senza mai indugiare, senza essere mai nude e calpestate.
Si arriva ad amare così tanto da morire, ma spesso si muore per amore, per violenza, non solo fisica, non solo brutale, non solo attraverso i segni lasciati su un corpo che viene martoriato, stuprato e vilipeso, la violenza è anche mentale, è psicologicamente cattiva e intrisa di odio che può portare a ferire l’anima, per sempre.
Vera, è un nome di donna, deriva dal tedesco War e significa “protezione, difesa”, si, difesa per l’amore, per la vita e contro ogni forma di sopruso e violenza.
Vera è la limpidezza con la quale traspare calore e dolcezza, Vera è la potenza che arriva di pancia e si soffoca in gola prima di cacciare un urlo che scappi via dall’incubo che ha lordato la purezza dell’animo, Vera è la forza dell’amore, Vera è la donna, in tutte le sue forme: amante, moglie, puttana, amata, odiata, forte, generosa, debole, ma sempre e realmente vera.
Per combattere le paure e le violenze, la cultura e l’attenzione sono la cura, le immagini arrivano forse spesso più dirette dei pensieri perché si impastano con le esperienze vissute, cartoline dall’inferno dal quotidiano che si iprimono dirette negli occhi di chi le guarda.
Il Comune di Piove di Sacco presenta la mostra “Vera”, un evento contro la violenza sulle donne, ideata da Matteo Vanzan di MV Eventi di Vicenza e curata da Enrica Feltracco, con la comunicazione di Giulia Granzotto.
“Vera è un evento contro la violenza sulle donne. Vera è un nome, un simbolo che rappresenta un incubo da cui uscire. Vera è un percorso artistico fatto dalle libere interpretazioni – appositamente create – di artisti contemporanei che affronteranno due tematiche principali: purezza dell’animo femminile e incubo della violenza subita“.
Paola Ranzato, Assessore alla Cultura del Comune di Piove di Sacco, pone l’attenzione sull’importanza di parlare della violenza sulle donne: “Perché molto dipende proprio da un fattore culturale. Un mese intenso, durante il quale, con eventi e performance di vario genere, parleremo e racconteremo del mondo femminile, di chi ha combattuto e combatte situazioni di violenza di vario genere; di chi è riuscita ad uscire dall’incubo: un mese per le donne, con le donne”. E l’Assessore alla Sicurezza Luca Carnio continua: “Abbiamo fortemente voluto questa serie di iniziative che partono dalla mostra d’arte Vera perché la violenza e le violenze sono sempre più ormai una piaga dei nostri tempi. Ci sembrava giusto portare il nostro contributo per sensibilizzare l’opinione pubblica e per dare una possibilità di aiuto e riscatto alle vittime. Infine abbiamo pensato a un format giovane proprio perché il nostro obiettivo è di far capire alle giovani generazioni quanto sia pericolosa la via della violenza.”
Le opere degli artisti esposti (Claudia Vanni, Cristiano De Matteis, Maria Candeo, Andrea Meneghetti, Sergio Padovani, Me-nè, Fabio Panichi, Guy Denning, Carlo Chechi, Massimo Chiarello, Stefano Bonazzi, Antonella Benanzato, Michele Leccese, Riccardo Cavallini, Daniela Urani, Marco Chiurato, Serena Vignolini, Barbara Pigazzi, Caterina Romano, Maurizio Taioli, Guido Airoldi, Alessandro Calabrese, Emanuele Sartori, Beatrice Sheridan, Marine Nouvelle, Laura Moretto, Michela Nicoletti, Beatrice Donello, Giorgio Dalla Costa)
Una mostra che pone l’attenzione sulla violenza alle donne attraverso pittura, scultura, fotografia, video e perfomance in cui si racconta la sofferenza della violenza fatta di ferite aperte, di rinascita e di riscatto.
Artisti contemporanei che, con le loro opere, si mettono di fronte ad un tema delicato abbattendo confini geografici e di pensiero creativo: le arti tutte diventano un linguaggio di percezione, dove si snoda un lungo viaggio che racconta, attraverso i sensi, la violenza.
Lungo il percorso della mostra si è colpiti inizialmente dal profumo di un totem-vagina, opera del vicentino Marco Chiurato, un monolite costruito con i baccelli di vaniglia che con il loro odore profondo, caldo, come un abbraccio, ma dolce e ricco di forza, invade le narici e nonostante il sapore della sua gradevolezza è violato e fatto a pezzi, come testimoniano i baccelli sparsi a terra.
Marco Chiurato presente con video e una performance a fine mostra, dimostra come la contemporaneità dei mezzi espressivi sia da tramite per quell’arte emozionale che diventa il collegamento per porre l’accento sulla totale importanza della mostra.
Un progetto espositivo che non si ferma alle mura della sede, ma si sensibilizza con una serie di iniziative e appuntamenti collaterali incentrati sempre sul tema della violenza sulle donne, dagli incontri con Il Centro Veneto Progetti Donna e del Centro Antiviolenza della Saccisica, in cui ogni anno viene accolto un numero sempre crescente di utenti.
Il vigore della mostra sta soprattutto nella vista che a tratti ne è infastidita perché non si vorrebbe vedere, ma si è costretti a farlo, ad ammettere che l’Uomo è l’anima di questo risultato disturbante, numerose sono le opere che diventano segno di denuncia o di riferimento per non scordare ciò che è avvenuto nel tempo, dove non è necessario ricordare i tratti somatici dei volti, come nelle piccole tele di Riccardo Cavallini in cui rimane il tempo, ferito.
“Muoviti puttana, devi farmi godere“, è il titolo dell’opera di Cristiano de Matteis che riprende alcuni frame di uno spettacolo televisivo proposto da Franca Rame e che racconta la violenza subita dall’attrice la sera del 9 marzo 1973.
Lei, donna scomoda che lottava contro i soprusi e le ingiustizie del potere è l’agnello sacrificale da punire, da zittire e da usare con furia e veemenza.
Il suo corpo fu oggetto di sevizie: sigarette accese furono spente sulla sua pelle tagliuzzata, stuprata ripetutamente, umiliata e usata, l’insulto ripetuto e ricevuto diventa ora il titolo dell’opera dell’artista romano, “Muoviti puttana, devi farmi godere“.
Il tagliente bianco e nero proposto compare quasi aggettato sul supporto fotografico, si impasta di dolore e movimento, la protagonista sente l’aria mancargli, annaspare alla ricerca della fine per questo macabro gioco in cui lei è la vittima e gli uomini i carnefici.
È un suono secco e irritante quello che la visione produce, gli occhi si voltano, ma le urla soffocate paiono udirsi, grazie al taglio compositivo e alla luce che ne evidenzia la muta disperazione e nelle orecchie dello spettatore riecheggia il “Muoviti puttana, devi farmi godere” urlato senza via di scampo, senza nessun filtro e i colori scompaiono, rivelando luci e molte ombre in un bianco e nero che si ricopre di aggressività e durezza.
Barbara Pigazzi, inscena invece un’installazione tra oggetti e fotografie indicando come la violenza dell’amore sta anche nel cuore, martoriato e rappresentato dalla sudditanza di una donna guerriera in veste di geisha, sottomessa al piacere e alla cultura che la opprime, ma in realtà forte e combattiva, mai paga, mai arrendevole. La violenza è sottolineata da un cuore messo sotto formaldeide dentro un vaso di vetro, a ricordo e conservazione di un pensiero passato e, evidenziato, da uno scatto fotografico di un cuore tenuto tra le mani da una donna di cui si vede solo parte del corpo, le mani sollevano l’organo all’altezza del pube quasi ad indicare che la violenza del pensiero e del sentimento ferito è più forte della violenza fisica subita.
Due scatti, il cuore da un lato, il fiore dall’altro, al centro la donna guerriera, rilevano la fragilità delle cose e dell’essere, un messaggio rivolto a chi calpesta i sentimenti e tradisce la fiducia, una violenza intima.
Lo scatto di Michele Leccese, raffigura una donna seduta a terra, appoggiata ad un mobile dove i suoi capelli sono incastrati dentro un cassetto, forse ricolmo di sogni e ora riempito di capelli, legati ad un arredamento, ad una casa dove si consuma la violenza tra il silenzio delle mura domestiche in cui la donna “legata” al luogo si perde nell’ assenza di rumori in un ambiente vacuo, in cui lo sguardo del soggetto femminile si perde nel vuoto.
Una fotografia, un frame del passato, un atto che si blocca in un istante è il delicato bianco e nero proposto da Antonella Benanzato, un primo piano dominato da un uomo con giacca e cravatta, perfetto nella sua posa da macho dallo sguardo duro. L’uomo, accecato dal sole, abbandona la scena di un luogo all’aperto dove il mare e una costruzione alle spalle fanno da fondale alla figura di donna sulla destra, spettinata e sconvolta, chiusa in se stessa, forse vittima della violenta forza dell’uomo? Indicativa la distesa d’acqua che si interpone tra i personaggi cui si immagina la loro storia, forse è il il mare, elemento primordiale di vita, il mare che influenza con la luna il ciclo mestruale della donna, il mare chiamato al femminile nella lingua francese, diventa l’assonanza per un elemento che racconta un universo a se stante.
Il bianco e nero dei panneggi che nascondono corpi in continua lotta su uno sfondo rosso sangue, è il soggetto di una parte delle opere fotografiche di Carlo Chechi dove la lotta si fa diatriba tra odio e amore e si riconduce ad un’assonanza orientale di yin e yang: si odia e si ama e si finisce sempre per farsi del male.
Violenza e femminilità, mai paghe, mai ferme così nel presente, come nel passato, provenienti da mondi lontani e da paesi con culture e lingue diverse, rilevate nell’opera “Too Far for Us (Syrian Women in a Satellite Landscape)/Troppo distanti per noi (donne siriane in un paesaggio dal satellite)” di Maria Candeo con il percorso delle donne siriane, in viaggio verso un luogo più democratico che le rispetti, portano il peso della difficoltà e della “colpa” per essere nate femmine, in un Paese dove non si possono affermare, rimangono nascoste e anonime agli occhi dell’Occidente, mentre un popolo si fa scudo della religione per ostentare un maschilismo imperante per scusare la violenza e i soprusi.
La deformazione dei corpi violati diventa la base dell’opera di Me-nè, una moderna visione dal sapore espressionista, quasi la versione adulta della ragazzina spaventata di Edvard Munch in “Pubertà“, ora consumata e chiusa in un enorme quadrato-letto nero.
Questa è la violenza, questo il dolore.
La sofferenza dopo il sopruso si attorciglia e arriva a chiudersi in un unico silenzio che fa male e non dilaga, quasi soffocato in urlo interno senza possibilità di farsi sentire, per questo la cultura salva, insegna ed informa, proprio perché mette in scena quelle angosce che, altrimenti, rimarrebbero chiuse nell’animo delle donne.
La riproduzione di un dolore intimo uguale a tanti altri dolori di donne ferite e lacerate, si ritrova in un unico filo conduttore: dare voce alla violenza subita che porta in sé una traccia indelebile appesa all’interno dell’anima che si fa meno chiusa e aggrovigliata.
Le donne trovano la forza dentro di sé, in ogni avversità e si risollevano e continuano la loro esistenza e dalle esperienze passate recuperano amore e fermezza che le rendono più forti.
Non rispettare il proprio io e non dipanare quel dolore lacerto è il primo passo per la distruzione interiore, è necessario ritrovare, dopo un’azione, la reazione, la forza interna, la reale energia di cui sono invase le donne, cui la mostra mette in risalto con uno sguardo attento e lucido a causa di una violenza inflitta e ricevuta.
Massimiliano Sabbion
VERA. Ogni donna è vera, come vera è la sua storia
29 Ott 2016 – 27 Nov 2016
CENTRO D’ARTE E CULTURA – Piove di Sacco (PD)
Via Giuseppe Garibaldi, 42
Info
3292812223
info@mveventi.com