“Puoi mettere in gabbia una tigre, ma non puoi essere sicuro di averla domata.
Con gli uomini è più semplice”
(Charles Bukowski)
La gabbia è un luogo, uno spazio creato per imprigionare qualcosa o qualcuno, anzi un non-luogo fatto di rete o sbarre cui passa la luce, l’aria ma i movimenti e la libertà sono limitati.
La gabbia è una prigione aperta nello spazio e in mezzo al niente in cui si è costretti a guardare e vivere in maniera passiva le cose esterne che sono libere, fuori dal piccolo non-luogo assegnato.
La gabbia è un sentimento non detto, un’idea non espressa, una sensazione soffocata dove si esprime un disagio e implode la voglia d urlare senza pregiudizi e senza accuse.
La gabbia è rabbia, è sofferenza, è passione, è un urlo soffocato da un impedimento fisico, è un laccio, è un sacco di plastica che non lascia traspirare l’aria, è un velo sul viso che chiude gli sguardi e li offusca, è un segno sulla pelle.
La gabbia non è una prigione, è l’illusione di una libertà.
“La Gabbia”, è anche il titolo scelto per la mostra personale di Barbara Pigazzi, fotografa padovana nata nel 1974, in un’esposizione curata da Enrica Feltracco e Massimiliano Sabbion.
Un’indagine sul corpo, sulle emozioni forti che lacerano e spaccano l’anima, sulle ferite inflitte sia fisicamente che nel cuore, una rabbia che, scatto dopo scatto, conduce lo spettatore a fermarsi e completare un particolare visivo che esce dalla stampa che ha impresso l’artista.
È la descrizione e trasfigurazione di cose impalpabili ad occhio umano come avviene, ad esempio, con un urlo che risulta soffocato sotto un velo leggero o un telo di plastica, non si sente ma si percepisce, oppure un corpo, rannicchiato a proteggersi fino ad atrofizzarsi e non avere che segni di una mancata circolazione sanguinea, un pezzo di vita fredda, ghiacciata, chiusa in se stessa.
I segni che si ritrovano sulla pelle sono ferite ricevute, provocate da agenti esterni e da texture con materiali con i quali si viene a contatto.
È una simbologia chiara e profonda: sul corpo sono lasciate le impronte della vita fatte di gioia repressa, di dolore, di collera, di troppo amore per gli altri e per se stessi e le figure quindi si immolano al piacere, alle sensazioni e alla ricerca di libertà.
Il soggetto principale delle opere fotografiche di Babara Pigazzi è il corpo della femmina da cui pervade un profumo di donna, non certo un lavoro “al femminile” ma la visione di un’altra faccia della medaglia del “gentil sesso”, quella di un animale ferito ma mai arrendevole e pronto alla difesa e a combattere, consapevole che l’anima, così come il fisico, ne uscirà segnata.
I titoli delle opere in mostra, una trentina circa, sono in lingua latina e rivelano una ricerca che sa di antico, ci si rivolge al passato in una lingua desueta e che è relegata a qualcosa di sacro e prezioso ma nascondono in realtà sensazioni ed emozioni robuste: “Raptus”, “Patibulum”, “Calumnia”, “Ignominia”, “Turpitudinem”, “Vereor”…
Una bellezza sacra, quella femminile appunto, portatrice di vita e che emerge in un lavoro –omaggio presente in mostra,”La Pietà”, opera del fotografo e amico Mustafa Sabbagah, in cui secondo l’autore: “La vera bellezza ferisce.”
In uno scatto Mustafa Sabbagah cita la pietà michelangiolesca e la postura caravaggesca di due corpi femminili bloccati e ricoperti di colore nero da cui affiorano le forme e le emozioni, modella d’eccezione è Barbara Pigazzi che si presta al fotografo in un gioco di scambi: da autrice a musa con la consapevolezza delle difficoltà e delle concezioni che il lavoro di un artista riesce a trasmettere.
Negli scatti di Barbara Pigazzi si fermano gli istanti di una sensazione come quando si riesce ad assaporare la luce dopo il buio o ci si appresta a trovare la sovranità di un respiro profondo quando il corpo esce dall’apnea dell’acqua, quando ricerca l’aria o quando si svincola dai pesi e, ancora intorpidito, si appresta a muovere i primi passi per poi a camminare e infine correre, scappando da un’ossessione, da un’idea o da una prigione.
Nelle opere di Barbara Pigazzi si fissano i momenti di questa rabbia, della mancanza di ossigeno che si pregusta al prossimo battito di cuore e della successiva boccata d’aria che riempie i polmoni, il tutto dentro una gabbia di emozioni e costrizioni che scoppiano e si bloccano nell’istante prima di definire unicamente e solo la vita di un’anima resa, finalmente, libera.
“La Gabbia”, mostra personale di Barbara Pigazzi
a cura di Enrica Feltracco e Massimiliano Sabbion
Loggia della Sala della Gran Guardia, Padova – Piazza dei Signori
La mostra, organizzata dall’Assessorato alla Cultura del Comune di Padova, rimarrà aperta al pubblico fino al 24 luglio 2016.
Orario 10-13/14-19, chiuso il lunedì, ingresso libero.
Catalogo in mostra.