Pubblicato il 17 maggio 2016 in http://vecchiatoart.blogspot.it
Sembra impossibile ma ormai lo facciamo tutti, tutti noi dotati di smartphone di nuova generazione: fotografiamo sempre e continuamente tutto e tutti!
Ci è presa la mania ansiogena di non lasciare scappare nessun secondo della vita: si fotografa il sole, la pioggia, l’improvvisa nevicata; si immortala quello che si mangia al ristorante senza lasciare a volte neppure il tempo al cameriere di posare il piatto che parte il CLICK! della fotocamera e poi si posta e tagga luogo e persona che ci è vicino, come appunto fosse un buon piatto di cibo appena servito; si prosegue con la marea di scatti ai figli e nipoti che crescono fotogramma dopo fotogramma senza lasciare la curiosità di capire cosa succederà poi; non dimentichiamo poi i vecchi autoscatti di qualche anno fa che ora si chiamano “selfie“, fatti in gruppo, da soli nel bagno di casa, con alle spalle un’opera d’arte, un tramonto, un vip ignaro, si ferma l’istante su qualsiasi cosa per paura di perdere il tempo che passa veloce…
Perché questa paura di perdere l’attimo?
Perché si sente il bisogno di fermare TUTTO quanto quello che ci passa davanti?
Perché l’uomo ha paura del tempo che scorre? Con l’ansia del, ad esempio, “devo-fare-assolutamente-questo-prima dei-miei-40-anni” sembra che non ci sia più spazio per l’attesa ma solo per l’immortale immortalità da immortalamento.
Così il peso del tempo, a mio parere, si sente il doppio, si instaura un meccanismo perverso e fagocitante di non riuscire a fermarsi in tempo per fermare il tempo.
I selfie sono diventati gesti scaramantici: “Dai facciamo un selfie per fare vedere dove siamo” (o chi siamo e come siamo!), senza mezzo di scampo si scattano una quantità indicibile di foto prima di scegliere quella giusta “No! Questa non mi piace, ho i capelli fuori posto, sto guardando da un’altra parte, sono inguardabile…no! Rifacciamo!” ansia da prestazione, reset di un istante che non piace e si cancella, poi, una volta trovato lo scatto giusto, si sistema tutto con un paio di giochi fatto di filtri e colore virato e la foto è PERFETTA.
Il tempo si è bloccato, un istante è finito dentro un apparecchio atto alla comunicazione e l’immagine prenderà il via verso altri lidi social chiamati Facebook, Instangram, Pintarest…
Chissà cosa penserebbe ora Nadar che ospitò nel suo studio i primi impressionisti nel 1874? Avrebbe mai immaginato dall’alto della sua mongolfiera quando era intento a fotografare i tetti di Parigi che un giorno la gente non avrebbe aspettato sedute di pose prima che lo scatto fosse completato? O peggio ancora, ci si è scordati forse dell’ansia post vacanze quando si portava a sviluppare il rullino da 36 foto di cui buone ne rimanevano forse la metà? L’attesa, la curiosità, la stessa ansia di vedere le immagini fissate a suo tempo sembra ormai perduta.
No, non si condanna l’avanzamento tecnologico né il tempus fugit, si costata come l’uomo dalla frenesia moderna della velocità e del tutto-e-subito senta forse più il peso dell’attesa e del silenzio che manca.
Tornano alla mente le fotografie inquiete più che inquietanti di Diane Arbus, dei corpi catturati di Helmut Newton e Robert Mapplethorpe, dei giochi surreali di Man Ray, dei paesaggi parigini di Henri Cartier-Bresson, delle violenze visive e fisiche di Nan Goldin, dei ritratti di Herb Ritts e delle composizioni di David LaChapelle, delle provocazioni hard di Terry Richardson, di tutti quei fotografi e artisti che hanno tramandato scatti epocali e che sono diventati di uso comune, linguaggio di tutti in cui ci si rivede, si sogna o si trasmettono le stesse emozioni bloccate allora.
Più che normale che arrivi quindi ai nostri giorni la forza e la voglia di arrestare il momento, di non farsi scappare l’occasione, di non permettere a nessuno di scordare quello che si vive e di volerlo tenere e comunicare a tutti.
Più che normale avere il sentore che quello che accade ora poi scompare e non ritorna più, bisogna conservare questi “attimi fuggenti”, ricordi, pensieri belli che, come biscotti rinchiusi in una biscotteria, poi ogni tanto si tirano fuori e si assaporano, petite madeleine proustiane contemporanee.
Più che normale che nello scatto di abnorme normalità risultano quindi insignificanti immagini di cosa si è mangiato o di particolari privi di contenuto alcuno se non quello di fermarsi e pensare.
“…farò quel che potrò” recita un’anonima frase scarabocchiata da un ignoto writer in angolo di Padova: tutti si fermano davanti a quella colonna a fotografare quel pensiero scritto, in fondo si cerca l’unicità delle cose, anche con lo scatto personale, anche con la frase lasciata in sospeso che ognuno completa come crede.
In amore? Farò quel che potrò. Nelle cose? Farò quel che potrò. Nel giorno del mio compleanno? Farò quel che potrò. Con una foto? Farò quel che potrò.
Con uno scritto e con un pensiero, farò quel che potrò.
Si è pronti? Si scatta, si vede, si è.
Ps: buon compleanno :-)